Non so quanti se ne siano accorti vedendoci passare impettiti per le vie del centro storico di Briancon. Otto uomini con la stanchezza in volto e la soddisfazione negli occhi. In fondo, nonostante le divise tricolori, non dovevamo sembrare molto diversi dai tanti gruppi di ciclisti che in questo periodo percorrono le strade alpine.
Ma non importa. Finalmente siamo qui a Briancon. Sembrano passati mesi dalla nostra partenza da Cannes ed, invece, sono solo tre giorni. Mai una città era stata così desiderata, corteggiata, attesa. Briancon è diventata in poco tempo la nostra Itaca. E’ tra le sue braccia che si è concluso il nostro viaggio. Non in un punto qualsiasi, ma davanti alla targa che, alle porte della città, ricorda le gesta di Gino Bartali. Le sue vittorie ottenute nel 1938, nel 1948 e nel 1949. Nel mezzo – non dimentichiamolo mai – una guerra atroce che mise i popoli europei li uni contro gli altri. Anche italiani e francesi si combatterono, allora. 65 anni dopo una città francese celebra le gesta di un ciclista italiano, un grande uomo europeo.
Siamo davanti a questa targa di marmo vista ogni giorno da centinaia di turisti distratti ma che per noi, oggi, significa molto di più. Perché in quelle poche parole di commemorazione sono racchiusi 270 chilometri passati sui pedali e qualche litro di sudore. E poi ancora i tre colli sopra di duemila metri raggiunti, un camper rotto, le soste improvvisate per i rifornimenti, i colloqui con le radioline che, quando servono veramente, non funzionano mai e le risate, i brindisi, la fisarmonica, qualche lago, le donne pettinatissime di Cannes e tanti “mi piace” e commenti di incoraggiamento da chi è tanto lontano, ma così vicino (a voi Grazie!)
Prima di tutto questo, però, prima della gioia e della gloria, ad attenderci c’era l’esame più duro: il Coll dell’Izoard. Dopo gli esami scritti di questi due giorni era arrivato per tutti noi (ammiraglie comprese) il momento di sostenere il passo più duro della nostra “speciale” maturità: l’orale. Unico giudice questo passo alpino che con i suoi 2360 metri di altezza è diventato un simbolo del Tour de France e del ciclismo. Tutti i più grandi di questo sport sono passati di qui. E qui hanno sudato e fatto fatica.
Come alla vigilia di ogni esame che si rispetti, questa mattina alla partenza c’era un pizzico di preoccupazione perché all’orale non esistono scorciatoie, bigliettini o bignani, non si può copiare. Si è soli di fronte alla commissione. Ma, arrivati a questo punto, tutti volevano arrivare in vetta con le proprie gambe o, forse, sarebbe meglio dire sulle proprie ruote. Anche chi, nella giornata di ieri, era stato costretto a chiedere aiuto all’ammiraglia.
Pensieri evaporati non appena la strada inizia a salire.
Mentre Matteo e Paolo salivano di passo buono, seguiti, un po’ più indietro da Francesco, già a pochi chilometri dall’inizio della salita Andrea e, soprattutto, Carlo faticavano. Quest’ultimo sembrava sul punto di mollare, ma stringeva i denti. E continuava a stringerli metro dopo metro sempre più in alto, fin dove gli alberi lasciano spazio alle nude rocce e ancora più su. Quando i denti erano ormai consumati, serrava le gengive e continuava, pedalata dopo pedalata, fino a dove la salita, benevola, lascia il passo alla discesa. E’ in cima.
Se dovessimo trovare un vincitore nella tappa di oggi, lui lo sarebbe ad honorem. Perché, in fondo, nella sua salita dell’Izoard c’è tutto il senso di questa nostra piccola grande avventura. O, forse, di tante imprese della vita. Magari quella pedalata del finale, un po’ goffa e pesante, non finirà sui grandi giornali, ma di certo rimarrà nella nostra memoria per molto tempo.
E’ così che, dopo poco più di un’ora di colloquio, il professore Izoard – dal volto austero ma bellissimo -decide di concederci un po’ di riposo, giusto il tempo per l’immancabile foto sotto la targa “ Coll de l’Izoard 2360”, prima di lasciarci correre verso le braccia di Briancon, verso la nostra piccola Itaca. Non prima, però, di aver messo alcuni fogli di giornale sotto la mantellina (come insegnano gli antichi).
Al nostro arrivo in città guardiamo il cronometro: in questi tre giorni i nostri ciclisti hanno trascorso in sella quindici ore e sette minuti (potete immaginare le conseguenze per le loro natiche). Bartali il 15 luglio del 1948, esattamente 65 anni fa, ne impiegò dieci. Cinque ore in meno. E’ vero erano altri temi, non c’era ancora l’euro e i coltelli “miracle blade”, nel ciclismo c’erano altri campioni, ma in fondo i colori della fatica sono uguali, oggi come allora. La salita è salita, non importa se ti chiami Bartali o Pippo Baudo, se sei leone o gazzella, se pedali su una bici da cinquemila euro o su di un cancello con due ruote. E per noi quella di oggi è una vittoria bella tanto quanto quella di allora. Una vittoria che non avremmo mai potuto ottenere senza quella storica impresa impressa su questa targa di marmo.
Mentre la fissiamo per un’ultima volta una famiglia ci passa accanto. Il padre, viste le nostre magliette, ci guarda e chiede: “Ma l’avete fatta davvero da Cannes?”. “Sì” rispondiamo con un sorriso, “ma in tre giorni aggiunge qualcuno”. “Ah”, sospira l’uomo già distante, come se fosse la cosa più normale del mondo. E un po’, forse, ha ragione. Cosa c’è di eroico o di mitico di quanto fatto in questi tre giorni? Probabilmente nulla in confronto alle fatiche della vita (e di chi era in quei giorni a lavorare), ma – ancora per qualche ora – lasciateci godere il film di questi giorni che ripassa davanti ai nostri occhi e quest’aria fresca che sentiamo ancora nella narici. E che, speriamo, possiate sentire un po’ anche voi.
Noi ci abbiamo semplicemente provato e messo passione. Ora – grazie al cuore tachicardico del nostro camper che ci ha riportati a casa – torniamo alla nostra vita quotidiana, ma non smetteremo di pedalare perché – nella vita come sulle alpi -ci sarà sempre una salita da scalare e degli amici con cui farlo. Questa volta non più sulla scia, ma al fianco di un nuovo compagno di viaggio, il nostro Gino Bartali!
Lo staff di Re-Tour